Quando Benjamin Franklin fece ritorno in America nel 1762, dopo cinque anni trascorsi a Londra, fu impressionato dai prezzi delle case. "Il costo della vita è enormemente aumentato durante la mia assenza", commentò. "Gli affitti delle case ed il valore della terra... sono triplicati negli ultimi sei anni". Franklin, sembrerebbe tornare a casa nel mezzo di una bolla immobiliare. Che sarebbe alla fine scoppiata, innescando una crisi di liquidità ed una severa recessione che furono i fondamenti macroeconomici della rivoluzione americana.

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I paralleli tra l'economia odierna e quella alla quale assistette Franklin hanno scaturito un dibattito tra gli storici: quanto fu importante il ruolo dell'economia, in rapporto agli ideali, nel fomentare la rivoluzione?

"Penso ci siano delle ragioni per dubitare che la rivoluzione sarebbe accaduta così come fece se non fossero state presenti queste condizioni dell'economia", dice Ronald W. Michener, professore di economia alla University of Virginia, staccandosi radicalmente dalla nozione popolare corrente che la rivoluzione fu principalmente un prodotto di grandi ideali riguardanti l'autogoverno.

Gordon S. Wood, professore alla Brown University e forse il più eminente storico vivente sull'argomento, controbatte: "C'era un alto livello di instabilità, ma ciò è difficilmente una spiegazione della rivoluzione. Non penso ci siano i presupposti per un'interpretazione economica della rivoluzione".

Il prof. Michener ed il suo collaboratore, Rober W. Wright, uno storico della finanza alla New York University, credono proprio in questo. Il duo ha lavorato per molti anni ad un manoscritto il quale sostiene che la rivoluzione americana fu il risultato diretto del malessere economico che seguì alla guerra franco-indiana.

Ora hanno un involontario lancio pubblicitario, la crisi finanziaria corrente, e l'editore, la Yale University Press, spera di pubblicare il libro entro la prossima primavera. "Ciò che ho scoperto è il fatto che le difficoltà monetarie che le colonie incontrarono non sono molto diverse dagli odierni problemi macroeconomici", ha dichiarato Michener. Per i coloni, come per noi, inizialmente ci fu un'espansione. Durante l'apice della guerra franco-indiana, che durò dal 1754 al 1763, il denaro fluiva nelle colonie, specialmente New York, dove la British Army aveva il suo quartier generale. Allo stesso tempo, il parlamento di New York emetteva una grande quantità di titoli di credito. Tutto quel contante sparso dappertutto provocò una messa in mostra eccessiva della ricchezza, in primo luogo da parte dei funzionari britannici, i cui standard di vita opulenti venivano imitati dai locali, specialmente a New York.

I prezzi delle case salirono durante la guerra. Ma quando il credito successivamente si restrinse, in parte anche grazie al divieto posto alle colonie di emettere carta moneta contenuto nel Currency Act del 1764, i proprietari immobiliari che non potevano pagare i propri debiti persero la loro terra. John Morton, lo sceriffo della Chester County in Pennsylvania il quale firmò la Dichiarazione di Indipendenza, confiscò 180 fattorie tra il 1766 ed il 1769.

Al cuore dell'argomentazione di Wright-Michener è che questa confluenza di circostanze economiche negative produsse la collera che poi si espresse nella ribellione contro lo Stamp Act ed altre tasse inglesi. In altre parole, il pricipale imputato fu il ciclo economico espansivo-recessivo; convinti che il loro futuro non era più nelle loro mani, i coloni poterono avocare il fantasma di John Loche, ponendo le basi per le argomentazioni di Tom Paine e della Dichiarazione.

Il professor Wood sostiene, al contrario, che mentre la risposta individuale alla causa rivoluzionaria fu parzialmente influenzata dalle circostanze economiche, le idee democratiche circolavano da tempo e vennero successivamente alla luce solo dopo specifiche azioni da parte degli inglesi, per esempio lo Stamp Act, il quale è largamente considerato l'atto che innescò la ribellione. E non erano solamente le condizione economiche ad essere mature: la popolazione coloniale stava crescendo più velocemente che la popolazione in Gran Bretagna, e Franklin intravise il giorno nel quale l'America sarebbe stata il centro dell'Impero Britannico. In aggiunta, siccome la proprietà era più facilmente acquisibile nelle colonie che in Gran Bretagna, l'America aveva un maggior numero di cittadini comuni, in rapporto ai nobili, con diritto di voto.

Certamente, gli economisti ammettono che gli ideali giocarono un ruolo nella storia, come gli storici degli ideali riconoscono l'esistenza di uno sfondo economico. Questi due professori stanno cercando di far recuperare un ruolo maggiore nella storia della rivoluzione agli eventi economici su larga scala in un momento nel quale gli storici si sono focalizzati sugli ideali. "Non stiamo cercando di rimpiazzare la visione ideologica", dichiara il professor Wright. "Stiamo affermando di avere un pezzo importante del puzzle".

Le interpretazioni nel racconto della storia oscillano come un pendolo. Nel 1913, Charles A. Beard scrisse il suo memorabile libro, "Un'interpretazione economica della Costituzione", nel quale presentava gli interessi economici dei fondatori come principale fattore del loro impegno nella rivoluzione. Circa mezzo secolo dopo, Bernard Bailyn, di Harvard, scrisse "Le origini ideologiche della rivoluzione americana", ponendosi come riferimento per coloro i quali considerano gli ideali come il vero impulso. Altri storici hanno enfatizzato gli atti eroici della gente comune, piuttosto che degli eroi storici.

Ma i problemi macroeconomici, al contrario delle mere politiche fiscali britanniche, non sono state al centro della narrativa negli anni recenti. "Entri a Barnes&Nobles e ci sono tutti questi libri enormi su Franklin, Jefferson", dice Edward Countryman, professore di storia alla Southern Methodist University e autore di "La rivoluzione americana", il quale fa risalire la ribellione a diverse trasformazioni piuttosto che ad un'unica causa. "Questi autori scontano la mancanza di qualsiasi tentativo di tenere in conto l'esperienza sociale".

Sicuramente, anche molti storici che si focalizzano sulle filosofie dei fondatori, incluso il professor Wood, sostengono che le forze economiche e sociali hanno avuto un ruolo. (Il professor Countryman dice che avere un'opinione precisa da parte del professor Wood è come cercare di afferrare "una trota coperta dall'olio d'oliva" perchè egli nei suoi libri include elementi sia di Beard che di Bailyn.)

"L'interpretazione dominante al momento è quella ideologica" dice il professor Wood. "Penso che il quadro complessivo sia abbastanza chiaro per ora. Ma ci sarà sempre una nuova generazione di storici in futuro." E nuove argomentazioni, senza dubbio.

Secondo la visione di Wright e Michener, se la politica monetaria britannica fosse stata diversa, e la recessione meno lunga, gli Stati Uniti avrebbero conquistato l'indipendenza solo gradualmente, come fu per il Canada, nel corso di più di un secolo.

E' un gioco divertente a "se fosse", ma per gli storici più inclini agli ideali le forze economiche del tempo verranno sempre dopo le parole di Jefferson e Madison.

"Stiamo vivendo una crisi molto seria proprio ora" dice il professor Wood, "ma nessuno parla di rivoluzione".

The Housing-Bubble and the American Revolution

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